Archivio mensile:gennaio 2014

“Affitto in nero”? Pochi passi per mettersi in regola.


Il D.lgs 23/2011 permette ai conduttori di un immobile ad uso abitativo privi di un contratto di locazione oppure con un contratto di locazione non registrato di regolarizzare la loro posizione con evidenti benefici fiscali ed economici.

Trattasi di una normativa finalizzata a far emergere i cosiddetti “affitti in nero”, nonché una possibilità per il conduttore di avere un contratto con tutte le relative tutele.

Il conduttore per avvalersi dei benefici non deve far altro che registrare il contratto di locazione, che a partire dalla data di registrazione avrà una durata di quattro anni + quattro, con un canone di locazione pari al triplo della rendita catastale., salvo che le parti abbiano previsto un canone inferiore.

Chi può registrare il contratto?

  • Conduttori privi del contratto di locazione;
  • Conduttori con contratto di locazione non registrato;
  • Conduttori nel cui contratto di locazione sia indicato un canone di locazione inferiore rispetto a quello effettivamente pagato;
  • Registrazione di un contratto di comodato fittizio.

Come fare?

Il primo passo da compiere è quello di recarsi all’Agenzia delle Entrate.

Naturalmente chi dispone di un contratto scritto, seppur non registrato, sarà agevolato, in quanto chi è sprovvisto di un qualsiasi contratto deve fornire prova di essere il conduttore dell’immobile (vicini di casa/testimoni; utenze intestate; versamenti tracciati; scambio di corrispondenza ecc…).

All’agenzia delle entrate si denuncia la propria situazione compilando l’apposito modulo di “denuncia di contratto verbale”, indicando gli estremi catastali dell’immobile nel modulo di registrazione (modello 69), dopodiché bisogna prendere il modulo per il versamento dell’imposta di registro ( F23). L’agenzia delle entrate ha, comunque, previsto un apposito punto informativo per agevolare e coadiuvare i soggetti durante tutta la procedura.

Il secondo passo è quello di effettuare i versamenti presso lo sportello di una banca o all’ufficio postale con il modello F23:

–          Pagamento del 2% del canone annuo pagato per ciascuno affitto “in nero” (se si denuncia solo un anno, per es. si pagherà il 2% del canone annuo relativo a quell’anno);

–          Sanzioni ed interessi;

–          Imposta di registro per il nuovo contratto, pari al 2% del triplo della rendita catastale.

Effettuati i versamenti richiesti, l’inquilino torna all’Agenzia delle Entrate per depositare la distinta di versamento e il modello 69 compilato, completando così la registrazione del contratto.

Benefici.

A seguito della registrazione il conduttore beneficerà di:

–          Contratto di locazione in regola della durata di 4 anni più quattro;

–          Canone di locazione pari al triplo della rendita catastale, con adeguamento automatico ISTAT, ottenendo così un canone di locazione di molto inferiore rispetto a quello di mercato. A titolo esemplificativo, può capitare il caso in cui il canone di locazione con l’affitto “in nero” sia pari ad € 700,00 al mese per un totale annuo di 8.400 €. Tenuto conto che le rendite catastali sono piuttosto basse, poniamo che la rendita catastale dell’immobile sia pari ad € 750,00, il triplo della rendita catastale è quindi di € 2.250,00, pertanto questo sarà il canone annuo che deve essere pagato al proprietario dell’immobile, con un risparmio di € 6.150,00 ed un canone mensile di € 187,50, a fronte di una spesa di registrazione che di solito non è mai alta.

Scarica la guida dell’Agenzia delle Entrate con tutti i riferimenti normativi

Guida in stato d’ebbrezza e lavoro di pubblica utilità


L’art. 186 del Codice della Strada prevede il divieto di guidare in stato d’ebbrezza derivante dall’assunzione di bevande alcoliche.

Prima ancora che essere una regola giuridica, il dovere di condurre un veicolo in condizioni di attenzione e sobrietà, e di conseguenza il divieto di cui alla norma suddetta, è una regola sociale posta a difesa di tutta la società.

Il soggetto che contravviene a tale divieto si pone contro l’ordinamento giuridico e viene punito:

–          con sanzione amministrativa da 527 a 2.108 € qualora si riscontri un tasso alcolemico superiore a 0,5 g/l e non superiore a 0,8 g/l, oltre alla sospensione della patente di guida da tre a sei mesi;

–          con ammenda da 800 a 3.200 € e l’arresto fino a sei mesi qualora si riscontri un tasso alcolemico superiore a 0,8 g/l e fino a 1,5 g/l, e sospensione della patente da sei mesi ad un anno;

–          con ammenda da 1.500 a 6.000 € e l’arresto da sei mesi ad un anno qualora si riscontri un tasso alcolemico superiore a 1,5 g/l e sospensione della patente da uno a due anni.

Ora, il comma 9 bis prevede che la pena dell’ammenda e dell’arresto possano essere sostituite con il lavoro di pubblica utilità.

Il lavoro di pubblica utilità.

Il lavoro di pubblica utilità consiste nel prestare un’attività non retribuita a favore della collettività, quella collettività che si è messa in pericolo con la condotta tenuta.

Ora, lo strumento suddetto ha certamente una finalità rieducativa in quanto pone il soggetto a contatto con realtà di disagio che gli permettono di vivere un’esperienza umana e sociale di notevole valore. Il volontariato, sia che venga prestato nel campo della sicurezza e dell’educazione stradale, sia nel settore sociale, è certamente un fattore di crescita, qualora sia svolto in modo serio e proficuo, che arricchisce chi vi si avvicina. Tuttavia in Italia è poco conosciuto e quindi poco utilizzato, con qualche eccezione nel Nord Italia.

Il lavoro di p.u. deve essere svolto presso lo Stato, le regioni, le province o i Comuni (alcuni comuni per esempio hanno stipulato delle apposite convenzioni con i tribunali), oppure presso enti, organizzazioni o associazioni di volontariato, o nei centri di lotta alle tossicodipendenze. Trattasi molto spesso di enti convenzionati con i Tribunali, e la cui lista viene messa da questi ultimi a disposizione.

Il lavoro deve essere svolto per lo stesso tempo della pena inflitta. Ogni giorno di lavoro corrisponde a 250 €. Non possono essere svolte più di sei ore a settimana, ma su motivata richiesta si può essere ammessi a svolgerne di più. Comunque non si può lavorare per più di otto ore al giorno. Ai fini del computo della pena un giorno corrisponde a due ore, anche non continuative, di lavoro di pubblica utilità.

Il lavoro deve essere svolto nella provincia di residenza del condannato, a prescindere da dove abbia commesso il reato, ma si deve tenere presente che nonostante la lettera dell’art.54 del d.lgs 274/2000 la giurisprudenza ammette che possa svolgersi anche altrove.

La pena sostitutiva, così disciplinata, presuppone il consenso dell’imputato, e viene irrogata con la sentenza o con il decreto penale di condanna.

Limiti.

Alla pena sostitutiva del lavoro di p.u., non possono essere ammesse due categorie di soggetti:

a)      il soggetto dalla cui condotta sia derivato un incidente stradale e quindi qualora venga contestata l’aggravante di cui al comma 2 bis dell’art. 186 C.d.S.;

b)      il soggetto che ne abbia già beneficiato.

In caso di soggetto ammesso, la violazione degli obblighi connessi allo svolgimento del lavoro di pubblica utilità, determina la revoca della pena sostitutiva con ripristino di quella sostituita.

Come fare.

Posto che il giudice sostituisce la pena con sentenza o decreto penale di condanna, occorre muoversi per tempo.

1)Per essere ammessi a tale “beneficio” occorre avere la dichiarazione di disponibilità di un ente disposto ad accogliere il condannato. In alcuni Tribunali tale requisito è presupposto per presentare la richiesta, in altri si può presentare anche successivamente.

I tribunali hanno stipulato convenzioni con alcuni enti. La lista è messa a disposizione in cancelleria penale o ufficio di Presidenza. Accade tuttavia che gli enti siano già pieni, in quanto la convenzione permette loro di seguire solo due o tre condannati e quindi debbano mettere il soggetto in lista d’attesa. In questo caso, occorre ricercare enti – anche non convenzionati- che siano disposti a far svolgere il lavoro di pubblica utilità, al fine di ottenere la dichiarazione di disponibilità, dove si deve concordare, e quindi indicare, un programma di attività, le ore e i giorni di lavoro, il soggetto responsabile che deve inviare la relazione al tribunale.

2) Ottenuta tale dichiarazione, già in fase d’indagine preliminare è opportuno presentare il proprio assenso con la dichiarazione di disponibilità, in modo tale che il magistrato del Pubblico Ministero possa orientarsi verso la richiesta di definizione del procedimento con un decreto penale di condanna che contempli la sostituzione.

3) E se viene notificato – come il più delle volte accade – un decreto penale di condanna? In questo caso che occorre fare per poter sostituire la pena irrogata?

Se ci troviamo in questa ipotesi vuol dire che non ci siamo mossi d’anticipo, e quindi occorre necessariamente presentare opposizione al decreto penale di condanna con contestuale richiesta di patteggiamento e sostituzione della pena con il lavoro di pubblica utilità (vedi modello). Quindi bisogna attendere la fissazione dell’udienza.

4) In caso di svolgimento positivo del lavoro di pubblica utilità, il giudice che procede, rectius il giudice che ha emesso il provvedimento(solitamente il G.I.P.), fisserà un’udienza in cui dichiarerà estinto il reato, dimezzerà i tempi di sospensione della patente di guida, nonché revocherà la confisca del veicolo.

5) In tutto l’iter si rende necessaria l’assistenza di un difensore.

Avv. Alessandra Grici

*Il suddetto articolo fornisce mere indicazioni sull’argomento, non è esaustivo, né contiene gli approfondimenti di cui ogni caso necessita.

Scarica qui il modello

Canone Rai e Corte EDU: il mistero!


Siti d’informazione on line, blog e quel che è peggio quotidiani locali riportano una notizia che fa il giro del web, complice il sistema dei social network, dove a farla da padrone è il titolo più che il contenuto di qualsivoglia notizia. Così, grazie alla noncuranza di chi condivide senza prima leggere, o meglio legge senza riflettere, la Corte europea dei diritti dell’uomo proclama sentenze del tenore “IL CANONE RAI NON DEVE ESSERE PAGATO”. I riferimenti della sentenza, le motivazioni, il caso di specie, non vengono riportati e non è dato saperli.

È chiaro che viviamo in un Paese dove ancora una volta la maggioranza invoca la “legge”, quella legge che solo una minoranza conosce, e l’ordinamento giuridico – che stratificandosi nel tempo regola sempre più minuziosamente ogni aspetto della vita umana – si erge ad appannaggio di pochi e a grande mistero per molti, quei molti, che inconsapevolmente se ne sentono padroni e si accingono addirittura a criticarlo oppure a sentirsene (questa volta forse a ragione) vittime.

  • Perché paghiamo il canone RAI e cos’è?

Il canone RAI si deve al Regio Decreto n. 246 del 1938 che disciplina gli abbonamenti alle audio-audizioni.

Il primo articolo recita al suo primo comma che “Chiunque detenga uno o più apparecchi atti od adattabili alla ricezione delle radioaudizioni è obbligato al pagamento del canone di abbonamento, giusta le norme di cui al presente decreto”.

Sono pertanto obbligati al pagamento tutti coloro che detengono (si badi bene non si parla di proprietà o di possesso ma di detenzione) un apparecchio, per il solo fatto della detenzione, a prescindere da qualsivoglia collegamento con l’emittente.

Stando a tale disposizione emerge chiaramente che l’abbonamento, nonostante il termine improprio, non viene corrisposto per vedere i programmi RAI, ma si fonda sulla detenzione dell’apparecchio, trattasi quindi di un tributo.

Ora, il restante corpo normativo del citato R.D. è stato modificato dal susseguirsi di successivi Decreti Ministeriali, tra cui il D.M. del 20 dicembre 2012, a cui si fa riferimento a titolo esemplificativo, che va ad adeguare i canoni di abbonamento.

L’art.5, comma 2 del succitato Decreto dispone che “gli utenti hanno facolta’ di disdire il proprio abbonamento nei termini e secondo le modalita’ di cui all’art. 2 del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 31 dicembre 1947, n.1542”. Nonostante una ricerca non è stato possibile rinvenire il testo a cui rinvia il D.M. di cui sopra. Tuttavia dal sito stesso della RAI, che si riporta al R.D. del 38, si rinvengono le modalità di disdetta e le condizioni.

Per non pagare il canone sostanzialmente non bisogna avere più la detenzione di un televisore e pertanto le condizioni al verificarsi del quale il tributo non è dovuto sono:

a)      cessione di tutti gli apparecchi detenuti con comunicazione del soggetto a cui si cedono all’Agenzia delle Entrate;

b)      comunicazione all’Agenzia delle Entrate con cui s’informa di non detenere alcun apparecchio (rottamazione, furto, incendio ecc…);

c)      nel caso di disdetta senza volontà di cedere l’apparecchio, quest’ultima deve essere corredata dalla richiesta di suggellamento che comporterà l’inutilizzabilità degli apparecchi mediante la loro chiusura generalmente in involucri.

Quindi, le rimostranze di coloro che ritengono di non dover pagare in quanto non vogliono usufruire delle trasmissioni RAI non trovano conforto nella legge.

Il canone o abbonamento, nonostante il termine utilizzato, è di fatto un tributo per la detenzione di un apparecchio e l’unico modo di sottrarsi ad esso è non averne uno.

 

  • Cosa s’intende per apparecchio?

Gli apparecchi per la cui detenzione deve pagarsi il canone RAI sono quelli “atti o adattabili alla ricezione delle radioaudizioni”.

Il R.D. elaborato nell’ormai lontano 1938 non consente di cogliere con chiarezza il suo ambito di applicazione, posta l’evoluzione tecnologica che ha investito la società. Pertanto ai fini di delineare la sua esatta portata applicativa si deve rinviare alla nota dell’Agenzia delle Entrate del dicembre 2012, con la quale si chiarisce che “ la normativa in esame si riferisce al servizio di radiodiffusione e, pertanto, non include altre forme di distribuzione audio-video basate su portanti fisici diversi da quello radio”. Si escludono pertanto le WEB radio e le WEB TV. A titolo esemplificativo la nota riporta anche una tabella esplicativa a cui si rinvia.

  • Se è un tributo per la detenzione perché si parla di RAI?

Ora, il canone RAI è un tributo che ha una determinata funzione: finanziare parzialmente il servizio pubblico di radio diffusione. Tale funzione viene ribadita dal Governo in una recente pronuncia della Corte EDU, che contrariamente alle affermazioni riportate dagli articoli-bufala, ritiene legittimo il pagamento del canone.

Nella pronuncia Faccio c/Italia, il ricorrente presenta richiesta di disdetta dall’abbonamento RAI e pertanto viene sottoposto alla suggellazione del proprio televisore. Successivamente ricorre alla Corte di Strasburgo lamentando la violazione del diritto a ricevere informazioni, nonché del diritto al rispetto della vita privata e familiare, in quanto la suggellazione del televisore non rende lo stesso inutilizzabile solo per la visione dei programmi RAI, ma anche per la visione di altri programmi per cui il canone non è dovuto. Lamenta, altresì, la violazione del diritto al libero godimento della proprietà privata che può essere compresso solo per motivi d’interesse pubblico.

L’Italia si difende argomentando che se è vero che la suggellazione rende l’apparecchio inutilizzabile per la visualizzazione di tutti i programmi televisivi, è d’altra pare vero che tale limitazione è proporzionale allo scopo perseguito dallo Stato, di interesse pubblico, vale a dire il finanziamento parziale del servizio pubblico di radio diffusione.

Sostanzialmente l’Italia difende il valore fiscale del canone RAI quale tassa per la detenzione di un apparecchio in grado di ricevere tutti i programmi e che è servente a finanziare il servizio pubblico di radiodiffusione e pertanto meritevole di tutela in quanto votato alla soddisfazione di un interesse pubblico.

La Corte accogliendo tali argomentazioni spiega che la suggellazione altro non è se non una misura per scoraggiare i contribuenti dal mancato versamento di un tributo e, pertanto, appare proporzionale ai fini della soddisfazione di un interesse pubblico, rectius l’informazione pubblica, che in parte viene garantita attraverso il pagamento di un tributo per la detenzione di un televisore.

Il canone non si paga per vedere i programmi RAI, ma perché si possiede un televisore.

Tale tributo di “detenzione” si fonda sulla necessità di finanziare il servizio d’informazione pubblica.

  • In conclusione.

Con il presente scritto s’intende solo fare chiarezza sul cosa sia il canone Rai e sul perché non può non essere pagato.

L’unico modo per non pagare il canone è di fatto non detenere un televisore.

Certo è, che si può discutere sulla opportunità odierna del suo essere alla luce dei recenti cambiamenti in campo mediatico. Oggi abbiamo diverse emittenti televisive che si sostengono attraverso gli introiti pubblicitari oppure attraverso il pagamento da parte degli utenti di un abbonamento.

Il servizio d’informazione pubblica (a prescindere da giudizi in ordine alla sua qualità) è di naturale importanza e quindi si giustifica in parte il contributo di ognuno di noi al suo mantenimento, ma d’altra parte è lecito chiedersi se ancora vi sia l’esigenza di un tributo a fronte di forti introiti derivanti dalla pubblicità. Di fatto il servizio pubblico si comporta e agisce come il privato sul mercato, quindi ci si chiede se è ancora necessario il canone. E ci si chiede perché le pubblicità che ricordano di pagarlo vantano la qualità dei loro programmi se quest’ultimo non viene pagato per la loro visualizzazione ma per il solo fatto di possedere un bene …

Tanti interrogativi provenienti da tutti i cittadini che sentono come ingiusto il pagamento di un tributo meritano una risposta.

Quello che si deve chiedere a coloro che amministrano questo Paese in nostra rappresentanza è di riflettere sull’odierna opportunità e sull’odierna ratio di un tributo nato nel lontano 1938.

Alessandra Grici

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Nota Agenzia Entrate

D.M.

Faccio c/Italia